Cinque anni fa mio padre è morto. Passato a miglior vita, si dice. Chissà se sia davvero così. Vorrei tanto crederlo, più di ogni altra cosa. Da allora, ogni anno, dal 29 maggio al 5 giugno – tanto è durato l’addio – rivivo lo stesso travaglio. La Settimana Santa, la chiamo io. Un viaggio sospeso tra dolore e memoria. Un pellegrinaggio dell’anima attraverso l’assenza, il silenzio, le domande ancora senza risposta.
Eh sì, perché io l’ho visto mio padre avanzare come Cristo, la croce sulle spalle, percorrere il calvario e avvicinarsi al patibolo. E quel calvario – così lui stesso lo ha definito – lo abbiamo condiviso. In un certo senso l’ho vissuto anch’io, ogni istante, ogni silenzio, ogni sguardo che gridava più di mille parole. Ne porto ancora i segni.
Ecco perché, ogni anno, l’angoscia mi assale, stringendo la gola, tanto da togliermi il respiro.
Mi alzo dal letto già stanca e vivo la quotidianità con un fardello che si fa ogni giorno più pesante, insidioso, implacabile. A suo tempo pensavo che, forse, con il passare degli anni si sarebbe alleggerito, che la distanza avrebbe smussato gli angoli del dolore. Mi sbagliavo. Il peso cresce, si radica, mi avvolge. Oppure sono io che m’indebolisco, incapace ormai di sostenerlo.
Mi guardo attorno e non trovo nessuno. Nessuno viene in mio soccorso. Non una mano tesa verso di me. Solo una voce, l’eco di chi un tempo diceva di amarmi, che si affaccia dal baratro - sempre più profondo - dove sono sprofondata, e mi grida: “Ti sono vicino!”
“Beh, grazie. La tua “vicinanza”? Sai dove puoi mettertela?”
Se mi amasse davvero, mi lancerebbe una scala (un braccio non basterebbe a raggiungermi). Meglio ancora, scenderebbe lui stesso e mi riporterebbe in superficie. Da sola, non riuscirei neanche a muovermi.
Ma no. Lui resta lì, e insiste: “Qua c’è un mare meraviglioso, un sole splendente. Non sai cosa ti stai perdendo!”
Mi verrebbe da rispondere: “Affogaci!”.
Ma non lo faccio, perché un altro mare sta riempiendo il buco ed io sto annegandoci dentro. Soffoco. È un mare nero, impenetrabile, denso come gelatina. E non è salato, ma amaro.
Il baratro – io lo chiamo buco - mi ha cambiata. Mi ha resa cattiva, lo ammetto. E anche egoista. In verità, mi sono imposta di diventare egoista, per difesa. Altrimenti sarei sprofondata fino al cuore della terra, inghiottita dal suo silenzio, persa senza ritorno.
Il dolore non si dissolve, non si attenua. Al contrario, si solidifica. Oramai è cristallizzato. E, più passa il tempo, più altri frammenti si depositano attorno al nucleo e la massa si ingrandisce. Proprio come una massa tumorale, una metastasi dell’anima. E non c’è rimedio. Non si può estirpare, né negare. Si deve accettare, come si accetta un’ombra perenne, un’appendice invisibile, ma ineludibile, del proprio essere.
Vado avanti e aspetto. Ho imparato a farlo, con pazienza. Il 6 giugno arriva, inevitabile, come arriva il Lunedì di Pasqua. E la Resurrezione, in fondo, è la mia, non di mio padre.
Continuo a soffrire, certo. Il dolore non svanisce con una data, né si dissolve nei giorni a venire. Mi accompagna, mi attraversa. Ma, almeno, ci provo. A riaffacciarmi alla vita, intendo. A lasciare che mi sfiori, che mi richiami. Ricomincio a respirare. E, sorprendentemente, è quasi piacevole, come l’attimo in cui si riemerge dopo una lunga immersione, in un’apnea forzata. L’aria brucia nei polmoni, ma è vita che torna, che rivendica il suo spazio, si riappropria delle sue cellule e spinge, forte, come fa il mare con le onde.
Dopo 21 giorni è il mio compleanno, ma da allora non è più lo stesso. Non ha più lo stesso significato, non porta con sé la stessa luce. Lo festeggiavamo - io, lui e Angela - insieme. Una tradizione che, con la sua assenza, si è sgretolata. A pensarci bene, però, il mio rapporto con il compleanno non è mai stato davvero sereno. Succede a molti, ne sono consapevole. E sì, faccio parte di quella cerchia di persone che lo vive con ansia, con una malinconia che s’insinua silenziosa. Perché festeggiare? A cosa brindare? A un anno che si chiude, a una strada che si accorcia, passo dopo passo?
Mi guardo allo specchio e vedo come gli angoli delle labbra cedano, lentamente, alla forza implacabile della gravità. Per sorridere bisognerebbe contrastarla, ma servirebbe una spinta più potente, un’esplosione di gioia capace di ribaltare il peso di tutto il resto.
Solo che non arriva alcuna euforia. Quasi mai. E allora la curva discendente si fa sempre più marcata, giorno dopo giorno, senza ostacoli.
E poi, festeggiare cosa? Questo corpo? Una volta era esile, armonioso, capace di attirare sguardi. Ora, goffo, appesantito, mi ha reso - se non respingente - invisibile. Trasparente, come se non esistessi davvero.
Subito dopo la scomparsa di mio padre ho avvertito impellente il bisogno di scrivere un racconto per renderlo eterno, per sottrarlo al tempo. Ancora mi chiedo perché io l’abbia fatto.
So che avevo il terrore di dimenticare. Che stolta! Come avrei mai potuto dimenticare?!?
Eppure, quella stessa paura mi rivela quanto io sia incline all’autolesionismo. Se mi fossi davvero voluta bene, avrei cercato di lasciar andare, di abbandonare all’oblio i ricordi più feroci. Invece no, ho scelto di fissarli sulla carta, di dar loro forma, di imprimerli come cicatrici che non possono guarire.
Ma - e qui si svela l’assurda contraddizione dell’essere umano - da quando ho terminato l’ultima revisione, non ho più avuto il coraggio di rileggerlo. A volte la tentazione mi assale, ma per fortuna - un po’ di bene, forse, me lo voglio - riesco a ricacciarla indietro.
Non solo non ho dimenticato, ma i ricordi più dolorosi sono incisi dentro di me, nitidi, implacabili. E non mi danno tregua. Affiorano quando vogliono, senza preavviso, senza pietà. Lo fanno e basta.
E io, fragile come la tela di un ragno, li subisco. Se ho ancora un briciolo di forza, mi impongo di deviare il pensiero, di rifugiarmi altrove, nella lettura di un romanzo, per esempio. E così, per un istante, me ne libero. O almeno ci provo.
Anche Angela e Cristina soffrono. Ognuna di noi porta il dolore in modo diverso, lo veste con la propria pelle, lo lascia scorrere dentro con un’intensità unica.
Vorrei avere la forza di Cristina - chissà, forse le sorelle maggiori sono tutte così - capace di reggere il peso senza cedere. Lei va al cimitero ogni fine settimana, senza mai mancare. Credo non ne abbia saltato neanche uno. È il suo modo di dimostrare amore, di onorare un padre che, pur nella sua iniziale severità, è sempre stato giusto, saldo nei suoi principi.
Io no. Non riesco a farlo. Ci vado di rado, sempre dopo una lunga battaglia con me stessa. So che dovrei. Vorrei. Ma qualcosa mi trattiene: una forza invisibile, un macigno sul petto che mi paralizza.
Forse è la certezza che, appena varcherò quella soglia, piangerò. Disperatamente. E quel pianto mi travolgerà, mi annienterà, mi ricorderà tutto ciò che ho cercato di domare, ma che vive ancora dentro di me, crudo e inalterato.
Appoggerò la mia mano destra sulla sua foto, fino a coprirla, e resterò così, a lungo, singhiozzando, ripetutamente “Papà mio… Papà mio…”, finché il pianto non mi avrà svuotata del tutto, consumata, privata di ogni resistenza. Le gambe cederanno, e allora dovrò sedermi e respirare.
La prima volta non ero sola, avevo un sostegno a cui aggrapparmi. Ora non più. Neanche lo chiedo a qualcuno di accompagnarmi. Mi sfiora, a volte, l’idea di domandarlo a uno dei miei figli. Poi desisto. Perché imporre loro un dolore che ancora non conoscono? Perché trascinarli in una scena che non ha alcuna tregua? Finirei per nascondere ogni lacrima, per mascherare il dolore. E allora, che senso avrebbe andarci solo per deporre un mazzo di fiori e scappare? La visita non sarebbe più intima né, se vogliamo, religiosa.
E poi, non farei che instillare in loro la paura della morte - ammesso che non ce l’abbiano già - la stessa che mio padre mi ha trasmesso quando ha realizzato l’imminente fine. Tremava. I denti battevano, ininterrottamente. No, non voglio trasmettere loro quella paura.
Il loro tempo verrà, purtroppo, e io non posso cambiare il corso delle cose.
Ma forse, quando sarà, non soffriranno per me quanto io sto soffrendo per lui.
E allora vado da sola.
Prima di raggiungerlo, sfilo tra volti scolpiti nella pietra, nomi incisi nel marmo, date che raccontano in silenzio il tempo trascorso, ormai finito. Sbircio appena, leggo qualche nome qua e là, ma senza soffermarmi.
Non sono io a guardarli. Sono loro a fissare me.
Qualcuno sembra chiamarmi. Per un istante gli rivolgo uno sguardo, poi il respiro mi manca.
Loro sanno. Sanno che, prima o poi, anch’io starò lì - oppure altrove, in un luogo che chi resta non può conoscere – e vedrò sfilare i provvisoriamente vivi, quelli che ancora credono di avere tempo.
In fondo, non siamo altro che morti in grado di camminare, respirare, parlare e amare, aggrappati all’illusione che tutto questo possa durare per sempre.
Loro sì che lo sanno. Sanno se l’eternità esiste davvero.
E, forse, ci osservano con un’ombra di compassione, consapevoli dell’inutile peso della sofferenza che ci trasciniamo addosso, come una zavorra che mai lasciamo andare.
E allora avanzo, perché tornare indietro non cambierebbe le cose. Ogni passo mi avvicina all’inevitabile dolore che attende silenzioso, pronto a consumarmi. Ma affrontarlo è l’unico modo per esistere davvero.
In questa settimana - almeno io ho questo convincimento - noi tre siamo come gli animali che, nel dolore più profondo, istintivamente si rintanano. Si allontanano da tutto, da tutti, e aspettano. Attendono che la natura segua il suo corso, che il tempo faccia ciò che deve. Così, senza neppure saperlo, innescano l’autoguarigione, una forza primordiale, misteriosa, forse persino divina.
E poi, superata la settimana, ognuna di noi - da dove, non si sa - trova la forza di uscire dalla propria tana.
Io mi rialzo dal buco.
Si tratta di una fessura nel terreno, profonda, scura, che mi inghiotte senza pietà. Una sorta di pozzo artesiano, maledetto, come quello che, tanti anni fa, inghiottì il piccolo Alfredino. Ancora oggi, quell’episodio mi accompagna. Fu uno dei primi traumi della mia vita. Dopo quello della nascita, naturalmente.
Mi chiedo se il dolore che sento, profondo e implacabile, sia solo per la perdita di mio padre o se nasconda qualcosa di più grande, più radicato.
Perché, invece di affievolirsi col tempo, scava sempre più a fondo?
Perché, in questi cinque anni, non c’è stato un solo giorno - mi sarei accontentata anche di uno soltanto - in cui il pensiero non sia volato a lui, a papà?
Non sempre sono ricordi dolorosi, non sempre riportano agli ultimi anni di battaglia contro il male. A volte sono leggeri: un aneddoto, una frase delle sue - di quelle che lo rendevano unico - una parola, una sensazione, un profumo.
Lui c’è. Sempre.
Ma poi, inevitabilmente, quella dolcezza si trasforma, scivola nella nostalgia. E il confine con il dolore è sottile, un soffio appena, la frazione di un secondo.
Mi sono sforzata di trovare risposte, ma nulla. Non ci sono riuscita.
So per certo, però, che quando si perde qualcuno che si è amato, non si piange solo per lui. Si piange anche per se stessi. Per ciò che quella perdita ha spezzato, per ciò che non tornerà più.
L’egoismo è scolpito nella natura umana, e allora eccola, la verità che brucia: piango, anch’io, per egoismo.
Per l’egoismo di non avere più un padre su cui contare, di non poter più sentire quel conforto saldo, quella forza che, anche senza parlare, bastava a farmi sentire al sicuro, di sapere che, ormai, le mie spalle sono scoperte e che la terra sotto ai piedi non è più solida, ma incerta, friabile.
Ho la consapevolezza che, d’ora in poi, sono io il genitore che può andarsene. Che se ne andrà, senza se e senza ma.
Solo una questione di tempo.
Mi chiedo: qualcuno sarà accanto a me, o affronterò l’ultima prova, la più dura, da sola, come sono quasi sempre stata?
Ci saranno i miei figli a vegliare su di me, a stringermi la mano, come noi abbiamo fatto con nostro padre?
Allora mi vedo al suo posto. Piangerò come lui? Uno di loro mi sfiorerà la fronte, le guance, e mi sussurrerà che andrà tutto bene, che supererò anche questo, come ho sempre fatto?
Perché è ciò che ho detto io a lui, mentendo. Sapendo di mentire.
E mi chiederanno perdono, e mi perdoneranno, senza parlare, senza muovere le labbra, per non rivelare l’imminente addio?
Poi, quando il tempo avrà scavato distanza tra il prima e il dopo, sentiranno ancora quel vuoto?
Proveranno, anche dopo anni, un dolore tanto forte quanto il mio?
Avranno un pensiero per me, ogni singolo giorno della loro vita?
È questo, dunque, il cuore della sofferenza? È il timore egoistico di svanire, di essere inghiottita dal tempo senza lasciare traccia? È la consapevolezza che mio padre esisterà finché esisterò io, e poi svanirà, dissolto nella nebbia degli avi, dove, alla fine, siamo destinati tutti? Del resto, io stessa non so nulla dei genitori dei miei bisnonni. Da loro in poi, a ritroso, c’è solo il vuoto. E il vuoto è implacabile.
Nonostante tutto, anche nel fondo del buco, ritrovo una forza misteriosa, flebile ma ostinata, come la fiammella di una candela che resiste al vento. Mi spinge a scrivere.
Perché scrivere, per me, è terapeutico. E, parola dopo parola, il groviglio si scioglie. Dipanando, lenisce. Le ferite, che prima pulsavano e sanguinavano, iniziano a chiudersi.
Mi sollevo lentamente, e la luce si avvicina. È piacevolmente calda e avvolgente. Mi stringe in un abbraccio così intenso da farmi rabbrividire.
E solo allora realizzo che è l’alba del 6 giugno.
Mi attende un nuovo anno, fatto di inciampi e ricadute, ma anche di piccole gioie (forse!), e di meritate conquiste (spero!).
Mi preparo, con le ossa ancora rotte, a fare ciò che tutti dobbiamo, finché ci è concesso.
Vivere.